Dal dovere della casa 6 alla compassione della casa 12

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Una riflessione astrologica sul tempo che stiamo vivendo e sulla direzione evolutiva della coscienza collettiva

Per l’astrologia umanistica, lo Zodiaco è una mappa del divenire umano, una struttura ciclica della evoluzione della coscienza, sia individuale che collettiva.

Ogni segno e ogni casa rappresentano una fase del viaggio che l’essere umano è chiamato a compiere, sia come individuo che come parte di un tutto più grande.

Dal primo segno, l’Ariete, fino ai Pesci, che rappresentano la dissoluzione delle frontiere e la riunificazione con il tutto, ogni tappa è necessaria, ogni passaggio ha un senso.

Il cerchio zodiacale, in quest’ottica, non è solo personale ma anche collettivo.

Se è così, possiamo allora leggere i grandi passaggi dell’umanità come fasi simboliche che risuonano con il ciclo delle dodici case astrologiche: un cammino che parla al singolo, ma anche alla coscienza della specie.

Da un punto di vista puramente simbolico, io credo che noi oggi, a livello collettivo, ci troviamo ancora nel tempo della casa 6.

Un tempo in cui l’etica dominante è fondata sul senso del dovere, sul rispetto delle regole, sull’auto-correzione costante.

La spinta a “fare la cosa giusta” non nasce tanto da un sentire profondo, quanto da norme interiorizzate, da modelli di efficienza e responsabilità che non sempre lasciano spazio alla compassione o alla complessità.

La casa 6 è, infatti, il luogo della funzione, della disciplina, dell’ordine morale ma anche del giudizio e della fatica del perfezionismo.

Là dove si distingue con “rigore” tra ciò che è corretto e ciò che non lo è, a livello individuale può sorgere il senso di inadeguatezza o la sensazione di non essere mai abbastanza.

Ma a livello collettivo può emergere un clima di controllo, standardizzazione e conformismo etico, in cui la complessità dell’esperienza umana rischia di essere semplificata o repressa.

Viviamo in un tempo che ci chiede di funzionare bene più che di essere autentici. E quando il dovere prende il sopravvento sul senso, si genera una stanchezza dell’anima: quella che vediamo oggi in molti aspetti della nostra società.

Quando il rispetto delle norme, l’efficienza e la correttezza formale sembrano prevalere sul sentire umano, che cosa guida davvero le nostre scelte?

Cosa significa “fare la cosa giusta” in un mondo in cui le regole vengono applicate anche quando la coscienza sembra smettere di fare domande?

In un tempo dominato dalla casa 6, la “cosa giusta” è spesso ciò che è conforme, funzionale, regolato. Ma il rispetto della norma non coincide sempre con la giustizia profonda, quella che nasce da un contatto autentico con l’altro, con la vita, con la sofferenza.

Senza uno sguardo più ampio, in grado di accogliere la complessità e la fragilità, il senso del dovere rischia di diventare cieco e di ostacolare l’evoluzione della coscienza.

La casa 12: verso una coscienza più ampia

In casa 12, la casa verso cui siamo diretti,  si passa da un’etica fondata sul dovere a una fondata sulla compassione. Da una visione che separa e corregge a una che unisce e comprende.

È la casa della coscienza universale, della spiritualità incarnata, della compassione attiva.

In casa 6, l’etica nasce dalla regola per cui  si distingue tra giusto e sbagliato, si corregge il comportamento secondo norme interiorizzate.

In casa 12, l’etica nasce dall’empatia per cui si sente l’altro come parte di sé, e ogni azione si misura sulla base di una coscienza inclusiva, non normativa.

Possiamo vedere nella casa 12 non un traguardo da raggiungere ma una direzione dell’anima, verso cui orientare i nostri gesti, anche i più piccoli.

Noi, come singoli individui, possiamo iniziare a fare spazio a questo passaggio dentro di noi.

Possiamo chiederci: dove vivo ancora sotto la legge del dovere? Dove agisco per colpa, per paura, per giudizio? E dove, invece, sto già intessendo un nuovo modo di essere, più aperto, più presente, più compassionevole?

Ci vorranno ancora molte generazioni perché l’umanità possa attraversare davvero questo passaggio. E forse, in senso profondo, non si tratta neanche di “arrivare” ma di iniziare a camminare verso quel punto dell’anima in cui la vita non è più separata e il dolore dell’altro ci riguarda.

Il nostro compito, ora, è più umile ma non meno necessario: iniziare a disattivare il meccanismo del dovere cieco, della prestazione vuota, della colpa come motore.

Possiamo coltivare in noi una diversa qualità di presenza, una consapevolezza che semina, anche nel piccolo, una forma nuova di appartenenza, di cura e di evoluzione della coscienza.

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